L’etimologia del termine “omosessualità” deriva dall’unione del termine greco “omoios” (stesso) e dal termine latino “sexus” (sesso).
Si definisce, quindi, omosessuale una persona che provi desiderio, attrazione fisica e/o sentimentale nei confronti di persone del suo stesso sesso.
Ancora oggi non esistono pareri scientifici unanimi sulle cause dell’omosessualità; le teorie innatiste ne ricercano l’eziologia nel corredo cromosomico, in particolari conformazioni del sistema nervoso centrale o del cervello (in particolare dell’ipotalamo), in squilibri ormonali, ecc. In sintesi definiscono l’omosessualità innata. Le moderne teorie psicologiche concentrano invece l’attenzione sullo sviluppo della psiche che, negli anni che vanno dalla prima infanzia all’adolescenza, seguirebbe un inconsueto percorso evolutivo a causa di particolari influenze di natura genericamente “ambientale” (familiari, relazionali, sociali…) o di natura genericamente “intrapsichica”.
Al di là delle presunte cause che ogni teoria cerca di identificare per avvalorare la propria tesi, quello che è certo è che l’omosessualità non è una malattia ma una semplice variante rispetto al consueto modo di esprimere, vivere e sentire la propria sessualità.
Questa è l’unica vera certezza che abbiamo. Nonostante ciò sono passati solo 20 anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha deciso di rimuovere definitivamente l’omosessualità dal codice delle malattie internazionali.
Qualche anno in più è passato da quando, nel 1974, l’Associazione Psichiatrica Americana (APA) aveva derubricato l’omosessualità dal DSM-III (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). In verità era stata una derubricazione parziale; era infatti ancora contemplata l’omosessualità egodistonica, ossia quell’omosessualità non in sintonia con l’ego del soggetto; in altre parole era ancora considerato “malato” il soggetto che non accettava la propria omosessualità.
E’ solo con la versione successiva, il DSM-III-R, del 1997 , che anche la forma egodistonica dell’omosessualità viene definitivamente esclusa dall’elenco dei disturbi mentali. Le ragioni di tale risolutiva cancellazione vanno ricercate nel fatto che l’egodistonia è causata dall’interiorizzazione dell’ostilità sociale.
Ma lasciamo un attimo in sospeso l’importantissimo aspetto dell’ostilità sociale, su cui poi torneremo, e facciamo un passo indietro, all’eziologia, di cui si è detto.
La mia posizione al riguardo, che deriva dalla mia formazione ed esperienza, non pone l’accento tanto sulle cause che possono determinare una particolare condizione dell’individuo, sia tale condizione un disturbo, un normale tratto di carattere, una costellazione di sintomi, un modo di vivere…
Le cause sono certo importanti ma spesso sono, a mio avviso, sopravvalutate. Proviamo invece a cambiare l’ottica di osservazione: ogni movimento psichico è rivolto verso un fine. E allora la domanda corretta non è “da dove?” ma “verso dove?”.
In questo senso io parlerei di “scelta omosessuale”, una scelta per lo più inconsapevole, una scelta che è, certo, il prodotto di dinamiche intrapsichiche che si sviluppano a partire dalla primissima infanzia sotto l’influenza dell’ambiente e della cultura del momento; tuttavia, come suggerisce la Psicologia Individuale di Alfred Adler, non si può trascurare il fondamentale ruolo del Sé creativo, il primo vero movente verso la formazione unica ed irripetibile della personalità di ogni individuo che, creativamente, ne è sempre protagonista attivo, artefice ed “artista”.
A tal proposito niente può essere più esaustivo per qualsiasi profano della seguente citazione:
«Non sono né l’eredità né l’ambiente che determinano la sua (dell’individuo) relazione con il mondo esterno. L’eredità gli assegna solo alcune doti. L’ambiente gli fornisce solo alcune impressioni. Queste doti e impressioni e la maniera in cui egli ne fa ‘esperienza’ -cioè l’interpretazione che egli dà di queste esperienze- sono i mattoni che egli usa, nelle sue specifiche modalità ‘creative’, per costruire le proprie attitudini verso la vita. È il suo modo personale di usare questi mattoni -o in altre parole, è la sua attitudine verso la vita- che determina la sua relazione con il mondo esterno.» (6, pp. 5-6).
Diviene quindi difficile addurre precise cause con connessione diretta all’effetto; ogni singola storia personale è unica e irripetibile e l’intreccio delle dinamiche che possono determinare una preferenza non convenzionale dell’oggetto sessuale è, a mio parere, analizzabile solo “sul campo”, partendo dalla storia di vita di ogni singolo individuo, una storia che è sempre diversa da ogni altra storia.
Fatta questa fondamentale premessa che vorrei nuovamente sottolineare, ogni singola storia personale è unica e irripetibile, proviamo a fare qualche riflessione generale.
Una fase di “ermafroditismo psicologico” nel bambino, prima dell’acquisizione della propria identità sessuale, è considerata normale; nelle età successive lo stesso fenomeno assume un significato, quanto meno, ambiguo e regressivo. Infatti, essendo l’ermafroditismo psichico strettamente connesso e derivato dal pensiero antitetico, di per sé poco funzionale, è precursore dell’insorgenza di una deviazione dalla norma.
E quando parliamo di ermafroditismo psichico vorrei precisare che Adler, già in uno scritto del 1910, tolse ogni dipendenza diretta da fattori biologici a questo termine sostenendo, in contrasto con Freud, che tali fattori sono, nel migliore dei casi, collegati solo indirettamente e che tanto gli uomini quanto le donne hanno la capacità di essere più maschili o più femminili; la scelta di essere più maschile o più femminile è una preferenza individuale dettata dagli scopi che ognuno si è prefissato a partire dalla prima infanzia.
Prendendo contatto con il mondo che lo circonda, al bambino, nei suoi primi anni di vita, s’impone una valutazione dei valori profondamente ancorata nell’anima della cultura del suo tempo, una simbolizzazione delle forme e delle apparenze della vita sociale nei loro aspetti ‘maschili’ e ‘femminili’ .
Il Sé creativo del bambino, a questo punto, può scegliere di costruire la propria opinione personale su di sé e sul mondo a partire da giudizi opposti relativi al “maschile” e al “femminile”, guidato da una visione antitetica e dicotomica.
In altre parole la psicologia adleriana sostiene la tesi secondo cui le potenzialità psichiche relative all’altro sesso possano evolversi o meno in un comportamento palese, secondo le esperienze maturate dallo stesso individuo nella vita di relazione e anche in rapporto al ruolo socio-sessuale contingente attribuito dalle varie culture ai singoli sessi.
Sia da un punto di vista psichico che da un punto di vista ormonale, in un dato momento della vita si verifica la differenziazione sessuale; tale fenomeno, generato dall’innegabile maturazione biologica, acquisirà, con il passare del tempo, sempre più importanza sino al compimento dell’adolescenza. E’ al termine di tale processo biologico/psicologico che la persistenza di un ermafroditismo psichico abbastanza marcato è rilevatore di incertezza, disorientamento, generale confusione nella scelta della propria identità e del proprio ruolo sessuale; è come se l’individuo esprimesse un’inconsapevole intento di non scegliere, come se non volesse rinunciare al ruolo opposto, agli eventuali vantaggi ad esso associati.
In altre parole, si riscontra una dialettica problematica tra i due ruoli che si traduce nell’incapacità di prendere decisioni in quanto la scelta di un ruolo comporta necessariamente la rinuncia al ruolo opposto.
In linea con la teoria della personalità adleriana, il sentimento di inferiorità, insito in ogni uomo, origina dinamiche di compensazione che aspirano a una posizione “superiore”, verso una meta di sicurezza, di perfezione; una meta che differisce da individuo a individuo, una meta “finzionale”, dove “finzionale” va inteso in senso vaihingeriano. Si tratta, infatti, di una meta costruita, per lo più inconsciamente, dall’individuo.
Sono la “qualità” e la “quantità” di sentimento d’inferiorità a far sì che un individuo si indirizzi verso una specifica meta di sicurezza. Evidentemente in una scelta non convenzionale dell’oggetto sessuale la qualità del sentimento di inferiorità è altamente influenzata dalla dialettica tra i due ruoli di cui si diceva prima. La personale interpretazione del ruolo socio-culturale attribuito al maschile e al femminile, compromessa da un “errato” training erotico, genera, pertanto, la ricerca di una meta di sicurezza che implica la differente scelta sessuale.
Ma che implicazioni pratiche hanno questi aspetti nella giovane vita di una persona che scopre, crescendo, la sua “normale diversità”? Nella maggior parte dei casi, ancora oggi, in un contesto sociale che si definisce moderno, tollerante, progressista, accettante… la presa di coscienza di un desiderio erotico nei confronti del proprio stesso sesso mette a dura prova le risorse psichiche individuali.
In realtà questo contesto sociale non è sempre così accettante come si definisce e questo, purtroppo, già a partire dalla più ristretta cerchia familiare. A questo si aggiunga che in un momento emotivamente complesso come quello dell’adolescenza, per sua natura, difficile e spesso problematico, affrontare apertamente in famiglia, o con il gruppo dei pari, un tema così delicato come quello della sessualità diviene un tabù spesso insormontabile.
Ci si sente quindi, spesso, costretti a vivere nella clandestinità il proprio “segreto”; il cronicizzarsi di tale clandestinità provoca una desolante discrepanza tra quella che si espone come identità pubblica e quella che si vive come identità privata. Le conseguenze, sul piano emotivo e sociale, si traducono in sentimenti di isolamento e di poca “autenticità”, spesso accompagnati da un senso di estraneità, da una negazione della propria condizione; una negazione sentita come unica forma di sopravvivenza possibile per difendersi dall’angoscia di abbandono.
Non lasciamoci ingannare dalle espressioni mediatiche che ci spingono a credere che oggi l’omosessualità sia una condizione di vita totalmente accettata dai più. Forse in alcuni ambiti può apparire così.
La realtà è però altra. Da un punto di vista cognitivo, l’adolescente che si scopre “diverso” coglie nel contesto sociale che lo circonda le informazioni distorte sull’omosessualità e, paradossalmente, le fa proprie; fa propri quei modelli negativi, stigmatizzanti, deridenti... perché non ha altri modelli cui ispirarsi per comprendere ed accettare la sua identità; anche sul piano cognitivo, quindi, il senso di non autenticità e di estraneità non possono che essere confermati e rafforzati. A tutto questo, spesso, si aggiungono vissuti di colpa e di immoralità.
L’immagine di sé viene, quindi, decisamente compromessa perché l’immagine dell’omosessualità che l’adolescente omosessuale interiorizza è, spesso, quella omofoba. Anche se questo può sembrare un paradosso da un punto di vista psichico questo è proprio ciò che accade nella maggior parte dei casi. L'adolescente costruisce la propria identità a partire proprio dagli stereotipi e dalle credenze a cui ha accesso nel suo contesto sociale di riferimento.
L’omofobia è «un sistema di credenze e stereotipi che mantiene giustificabile e plausibile la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale; l’uso di un linguaggio o slang offensivo per le persone gay; e/o qualsiasi sistema di credenze che svaluta gli stili di vita omosessuale in confronto a quelli eterosessuali» (16, p. 16).
In questa, seppur breve, definizione sociale di Morin e Garfinkle si celano, in realtà, molti significati psicologicamente significativi; significati che appartengono alle aree emotive, cognitive e comportamentali, significati che si intrecciano con i concetti di discriminazione, stereotipo, pregiudizio.
Sul piano emotivo, l’omosessualità interiorizzata assume valenza negativa in termini di disprezzo, ostilità, disgusto, paura, evitamento, solitudine … ; la valenza che assume sul piano cognitivo è altrettanto connotata negativamente: omosessualità come malattia, come disturbo, come perversione, come impossibilità di costruire relazioni stabili e soddisfacenti. Le cose non cambiano se analizziamo la valenza sul piano comportamentale: linguaggio discriminante e ridicolizzante, violenza, maltrattamenti…
Se dunque, il giovane adolescente omosessuale interiorizza un’idea dell’omosessualità di questo tipo quale potrà essere il suo livello di autostima? Quale potrà essere il valore che da alla sua immagine di sé?
Quanta sofferenza psicologica prima di una piena e legittima, ma delegittimata dal contesto socio-culturale, accettazione del proprio sé?
Per quanto riguarda il trattamento psicologico proposto dalla Psicologia Individuale, e dall’autore, l’obiettivo perseguito è quello del reinserimento sociale attivo del soggetto, un reinserimento che punti alla completa auto accettazione e al soddisfacimento relazionale in tutti gli ambiti della sua vita.
In quest’ottica è fondamentale il tipo di relazione che si stabilisce nell’analisi che deve costituire una sorta di collaudo preliminare per il perseguimento dell’obiettivo del trattamento: assistere le persone omosessuali, gay e lesbiche, a comprendere il proprio orientamento sessuale e ad integrarlo come parte di sé, a sviluppare un’immagine positiva del proprio sé in senso adattivo.
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